domenica 1 agosto 2021

Citroen 2CV. Quando la necessità divenne poesia di successo


ROBERTO BERLOCO - Può la necessità di un’autovettura, concepita e voluta all’altezza delle esigenze degli umili della società, finire per animare una poesia fatta lamiera e motore, alla quale spezzare pure il merito d’un successo commerciale oltre ogni aspettativa? Il responso è si! E la prova materiale è offerta dalla Citroen 2CV.

Appartenente ad un’epoca che parte proprio dal 1935, l’anno della morte di André Citroen, l’idea della 2CV - cioè due cavalli, ma cavalli in senso fiscale, mentre quelli di potenza, al momento del parto al pubblico, erano 9 per 375 cc e 2 cilindri - nacque sulla base di precise ed espresse indicazioni da parte di Pierre Jules Boulanger, amministratore unico della Casa del Double Chevron, una volta che la maggioranza azionaria passò dal fondatore alla Michelin.

A provocare verso il concepimento industriale della “Deux Cheveux” - come fu appellata in lingua materna - oppure “Dodoche” - come venne anche affettuosamente soprannominata, appena un delizioso epiteto di quelli tipici francesi - ed il suo seguente getto sul mercato, avvenuto nell’immediato Secondo Dopoguerra,  Boulanger si spinse determinato per una coppia di ragioni fondamentali. Da una parte, la necessità di risollevare le sorti economiche dell’azienda, in crisi da parecchio prima delle situazioni che si svilupperanno con gli eventi bellici. Dall’altra, condivisa con gli altri marchi produttori automobilistici d’Oltralpe, la volontà di portare il grosso della popolazione, vale a dire la porzione meno agiata, all’opportunità di muoversi su quattro ruote.

La sua pressione fu recepita con tale intraprendenza e spirito di zelo dai responsabili dello stile che, in breve tempo, fu realizzato un prototipo piuttosto singolare - denominato “TPV” (“Trés Petite Voiture”, ossia, tradotto in italiano, “auto assai piccola”) - ma fedelmente rispondente alle caratteristiche volute, tra cui quella d’andare incontro perfino al bisogno di carico e movimento di piccoli agricoltori.

Il campione sperimentale conobbe diverse interpretazioni, che si succedettero negli anni, man mano che emergevano criticità e s’approntavano le migliorie necessarie, le quali mai, comunque, snaturarono nella sostanza il disegno primigenio.

L’ultima delle versioni, costituita in lega metallica e d’una telatura per tetto e area del baule posteriore, vide luce nel 1939 e si presentava abbastanza simile al modello che sarà, poi, destinato alla prima commercializzazione. Anzi, essa piacque tanto a Boulanger da portarlo quasi a decidere per la sua presentazione ufficiale.  A trattenerlo, ma davvero a stento, fu solo l’inizio della guerra accesa dalla Germania di Adolf Hitler, mentre, a fargli riprendere il piglio di procedere fu il termine delle ostilità, coincidente alla vittoria definitiva degli Alleati.

Prima del lancio definitivo, avvenuto a Parigi nell’Ottobre del 1948 e di fronte alle massime autorità dello Stato, si lavorò, comunque, alla definizione d’alcuni particolari, come il meccanismo di molle elicoidali ed ammortizzatori delle sospensioni, le quali, appunto per le singolari peculiarità che sviluppavano (l’auto letteralmente danzava ad ogni asperità del suolo stradale, ma senza che ne venisse compromessa la stabilità di marcia), rappresenteranno un motivo a parte, quasi una sorta di classico all’interno di un classico.

Ma, soprattutto, venne interessata la matita dell’italianissimo Flaminio Bertone, che contribuì efficacemente  ad un raggentilimento estetico complessivo, un’ultima, importante, preziosa mano prima dell’approdo al prodotto finale. E sarà sempre un italiano, l’ingegnere di origini piemontesi Walter Becchia, ad imporre l’ultima parola quanto al motore, da due cilindri come nella concezione originaria, ma migliorato sotto vari aspetti, aggiungendo anche alcune novità, come la quarta marcia.

In realtà, le prime impressioni del giornalismo di tema non furono subito così tese ad una felice accoglienza. Anzi. Soprattutto, colpiva male l’elementarità della struttura, con quel senso di estrema  essenzialità che finiva per sapere d’una insopportabile pacchianeria, tanto era così ben riuscito. Malgrado la sostanziale uniformità della stampa specializzata nell’assenza di entusiasmo, i vertici della Casa procederono come da programma ai passaggi successivi, in particolare quelli della commercializzazione, a partire dal raggiungimento dei punti vendita in terra di Francia, dove venne consegnato un esemplare da mostra nei giorni successivi alla presentazione.

In barba alle attese catastrofiche della critica, il modello piacque immediatamente, al punto che il numero degli ordini cominciò ben presto a lievitare assai oltre quello delle iniziali disponibilità.

Nel corso degli anni, la 2CV conobbe aggiornamenti costanti, soprattutto con riguardo ad elementi della carrozzeria, che andò arricchendosi e abbellendosi fino al 1960, quando s’operò il primo, deciso intervento di ristilizzazione.

Per quanto, nella sostanza, il disegno della partenza commerciale non mutasse un granché, le modifiche apportate furono bastevoli per portarsi alla conclusione d’un deciso cambio di rotta, particolarmente quanto al lato dell’aerodinamica. Solo per  fare un esempio, veniva coinvolto il cofano davanti, che, adesso, scivolava privo di sinuosità ed era rafforzato da venazioni funzionali, prima di congiungersi alla calandra, più contenuta rispetto al passato (e queste rimarranno le dimensioni anche per l’intero corso della sua esistenza avvenire).

Di questo periodo, inoltre, è la speciale variante “Sahara”, pur essa con una forte attitudine ad entrare nell’affetto delle masse, anche se, in questo specifico caso, non anche nelle disponibilità di portafoglio dei più, a causa di un costo di listino assai elevato. Si trattava d’una elaborazione a trazione integrale, quattro ruote motrici curiosamente ottenute, però, tramite due motori, uno applicato all’assale delle ruote anteriori, l’altro a quello delle posteriori, ognuno collegato ad una propria chiave per la messa in moto. Adesso, tale genere di soluzione potrebbe condurre ad un comprensivo sorriso, ma, per l’epoca, rappresentava un’ottima dimostrazione di avanzamento della tecnologia.

I vertici della Casa si decisero per questa peculiare declinazione su pressione della principale compagnia petrolifera francese dell’epoca (quella che, in seguito, sarebbe stata denominata “Total”) e di altre entità, tra cui il Corpo Forestale ad esempio, per esigenze naturalmente intuibili.

Anche dopo il 1960, durante gli anni, anzi, i decenni a seguire, la 2CV andò incontro ad altre modifiche estetiche, ma pure dal lato della motorizzazione, la cui potenza crebbe gradualmente dagli iniziali 9 cv per 375 cc di cubatura ai 28,5 cv per 602 cc della versione del 1970 (alle soglie degli anni ‘80, s’aggiungerà un mezzo cavallo, ma sarà davvero l’ultimo incremento).

Fino all’Estate del 1990, cioè fino all’ultimo degli esemplari prodotti in uno stabilimento portoghese della Citroen, di “Dodoche”, tra sue varie visioni migliorate (come le ultime “Special” o “Charleston”), varianti (“Sahara”), infine, volendo comprendere nel suo concetto anche filiazioni dello stesso progetto originario (“Mehari”, “Dyane” o “Ami”), erano state prodotte all’incirca dieci milioni di unità.

L’enorme successo della 2CV, particolarmente tra le fasce giovanili, fu innescata dalla felice combinazione d’un prezzo decisamente popolare con costi di manutenzione bassi e, soprattutto, con linee che sapevano di una singolare freschezza stilistica, come anche d’una originalità capace di imporsi ai gusti e al tempo.

La simpatia naturalmente sprizzante da quelle vistose evoluzioni della carrozzeria, come tutte quelle curve che s’alternavano secondo la trama d’una commedia di Moliere, pareva quasi il corollario pienamente riuscito d’un progetto che era nato speciale perché per un fine speciale, anzi, uno addirittura moralmente nobile, visto che l’obiettivo di fondo era di sovvenire alle esigenze dei ceti meno abbienti della società francese.

Quella sagoma che, soprattutto nell’ultimo ventennio di produzione, faceva tanto vintage e da stimolo affettivo, sarebbe divenuta un mito certificato nella storia dell’automobile solo dopo aver fatto solido e definitivo ingresso nel cuore della gente comune. Un destino singolare, toccato solo a rare altre vetture, quasi nessuna, comunque, così longeva da durare mezzo secolo senza mai perdere il ritmo e il respiro del successo (l’esempio più significativo, quello per cui è possibile instaurare una reale analogia, anche per l’aspetto delle ragioni morali alla base della sua concezione, sarà offerto dalla Wolkswagen Typ 1, maggiormente nota al mondo come Maggiolino).

Naturale, così, che le stesse tentazioni di viverla oltre l’ambito ordinario, prendessero facilmente corpo anche in altre direzioni. Come quella sportiva, espressa da campionati monomarca organizzati non solo in Francia, ma pure da partecipazioni a gare di lunga durata, ovviamente per la categoria corrispondente. O come quella della cinematografia, emergente in diverse pellicole per il grande schermo, tra cui “Solo per i tuoi occhi”, dove appare, nella versione “6 Club” e tinta d’uno sgargiante giallo, immersa in spericolare peripezie ed inseguimenti mozzafiato tra alcune strade spagnole, guidata dall’attore britannico Roger Moore nei panni di James Bond.

Al giorno d’oggi, a distanza di oltre trent’anni dalla dismissione della sua produzione, di questo storico modello rimangono una solida memoria ed un entusiasmo ancora in stato d’assoluta integrità, soprattutto tra le generazioni che gli sono state contemporanee, mentre, per quelle che appartengono al nuovo millennio, è sempre una piacevole sorpresa scoprire la 2CV anche solo casualmente, magari scorgendola passare con il volante tenuto ben stretto tra le mani di qualche appassionato, il quale non rinunzierà mai al piacere di possedere una leggenda che, malgrado la leggerezza del corpo vettura, ha lasciato un solco assai profondo tra le pagine della grande storia dell’automobile. 

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