ROBERTO BERLOCO -
Può la necessità di un’autovettura, concepita e voluta all’altezza delle
esigenze degli umili della società, finire per animare una poesia fatta lamiera
e motore, alla quale spezzare pure il merito d’un successo commerciale oltre
ogni aspettativa? Il responso è si! E la prova materiale è offerta dalla
Citroen 2CV.Appartenente ad un’epoca che parte proprio dal 1935, l’anno della morte di
André Citroen, l’idea della 2CV - cioè due cavalli, ma cavalli in senso
fiscale, mentre quelli di potenza, al momento del parto al pubblico, erano 9 per 375 cc e 2 cilindri - nacque sulla base
di precise ed espresse indicazioni da parte di Pierre Jules Boulanger,
amministratore unico della Casa del Double Chevron, una volta che la
maggioranza azionaria passò dal fondatore alla Michelin.
A provocare verso il concepimento industriale della “Deux Cheveux” - come
fu appellata in lingua materna - oppure “Dodoche” - come venne anche
affettuosamente soprannominata, appena un delizioso epiteto di quelli tipici
francesi - ed il suo seguente getto sul mercato, avvenuto nell’immediato
Secondo Dopoguerra, Boulanger si spinse
determinato per una coppia di ragioni fondamentali. Da una parte, la necessità
di risollevare le sorti economiche dell’azienda, in crisi da parecchio prima
delle situazioni che si svilupperanno con gli eventi bellici. Dall’altra,
condivisa con gli altri marchi produttori automobilistici d’Oltralpe, la
volontà di portare il grosso della popolazione, vale a dire la porzione meno
agiata, all’opportunità di muoversi su quattro ruote.
La sua pressione fu recepita con tale intraprendenza e spirito di zelo dai
responsabili dello stile che, in breve tempo, fu realizzato un prototipo
piuttosto singolare - denominato “TPV” (“Trés Petite Voiture”, ossia, tradotto
in italiano, “auto assai piccola”) - ma fedelmente rispondente alle caratteristiche volute, tra cui quella
d’andare incontro perfino al bisogno di carico e movimento di piccoli
agricoltori.
Il campione sperimentale conobbe diverse interpretazioni, che si
succedettero negli anni, man mano che emergevano criticità e s’approntavano le
migliorie necessarie, le quali mai, comunque, snaturarono nella sostanza il
disegno primigenio.
L’ultima delle versioni, costituita in lega metallica e d’una telatura per
tetto e area del baule posteriore, vide luce nel 1939 e si presentava
abbastanza simile al modello che sarà, poi, destinato alla prima
commercializzazione. Anzi, essa piacque tanto a Boulanger da portarlo quasi a
decidere per la sua presentazione ufficiale.
A trattenerlo, ma davvero a stento, fu solo l’inizio della guerra accesa
dalla Germania di Adolf Hitler, mentre, a fargli riprendere il piglio di
procedere fu il termine delle ostilità, coincidente alla vittoria definitiva
degli Alleati.
Prima del lancio definitivo, avvenuto a Parigi nell’Ottobre del 1948 e di
fronte alle massime autorità dello Stato, si lavorò, comunque, alla definizione
d’alcuni particolari, come il meccanismo di molle elicoidali ed ammortizzatori
delle sospensioni, le quali, appunto per le singolari peculiarità che sviluppavano (l’auto letteralmente
danzava ad ogni asperità del suolo stradale, ma senza che ne venisse
compromessa la stabilità di marcia), rappresenteranno un motivo a parte, quasi
una sorta di classico all’interno di un classico.
Ma, soprattutto, venne interessata la matita dell’italianissimo Flaminio
Bertone, che contribuì efficacemente ad
un raggentilimento estetico complessivo, un’ultima, importante, preziosa mano
prima dell’approdo al prodotto finale. E sarà sempre un italiano,
l’ingegnere di origini piemontesi Walter Becchia, ad imporre l’ultima parola
quanto al motore, da due cilindri come nella concezione originaria, ma
migliorato sotto vari aspetti, aggiungendo anche alcune novità, come la quarta
marcia.
In realtà, le prime impressioni del giornalismo di tema non furono subito
così tese ad una felice accoglienza. Anzi. Soprattutto, colpiva male
l’elementarità della struttura, con quel senso di estrema essenzialità che finiva per sapere d’una
insopportabile pacchianeria, tanto era così ben riuscito. Malgrado la
sostanziale uniformità della stampa specializzata nell’assenza di entusiasmo, i
vertici della Casa procederono come da programma ai passaggi successivi, in
particolare quelli della commercializzazione, a partire dal raggiungimento dei
punti vendita in terra di Francia, dove venne consegnato un esemplare da mostra nei giorni successivi alla presentazione.
In barba alle attese catastrofiche della critica, il modello piacque
immediatamente, al punto che il numero degli ordini cominciò ben presto a
lievitare assai oltre quello delle iniziali disponibilità.
Nel corso degli anni, la 2CV conobbe aggiornamenti costanti, soprattutto
con riguardo ad elementi della carrozzeria, che andò arricchendosi e
abbellendosi fino al 1960, quando s’operò il primo, deciso intervento di
ristilizzazione.
Per quanto, nella sostanza, il disegno della partenza commerciale non
mutasse un granché, le modifiche apportate furono bastevoli per portarsi alla
conclusione d’un deciso cambio di rotta, particolarmente quanto al lato dell’aerodinamica. Solo per fare un esempio, veniva coinvolto il cofano davanti,
che, adesso, scivolava privo di sinuosità ed era rafforzato da venazioni
funzionali, prima di congiungersi alla calandra, più contenuta rispetto al
passato (e queste rimarranno le dimensioni anche per l’intero corso della sua
esistenza avvenire).
Di questo periodo, inoltre, è la speciale variante “Sahara”, pur essa con
una forte attitudine ad entrare nell’affetto delle masse, anche se, in questo
specifico caso, non anche nelle disponibilità di portafoglio dei più, a causa
di un costo di listino assai elevato. Si trattava d’una elaborazione a trazione integrale, quattro ruote
motrici curiosamente ottenute, però, tramite due motori, uno applicato
all’assale delle ruote anteriori, l’altro a quello delle posteriori, ognuno
collegato ad una propria chiave per la messa in moto. Adesso, tale genere di
soluzione potrebbe condurre ad un comprensivo sorriso, ma, per l’epoca,
rappresentava un’ottima dimostrazione di avanzamento della tecnologia.
I vertici della Casa si decisero
per questa peculiare declinazione su pressione della principale compagnia
petrolifera francese dell’epoca (quella che, in seguito, sarebbe stata
denominata “Total”) e di altre entità, tra cui il Corpo Forestale ad esempio,
per esigenze naturalmente intuibili.
Anche dopo il 1960, durante gli anni, anzi, i decenni a seguire, la 2CV
andò incontro ad altre modifiche estetiche, ma pure dal lato della
motorizzazione, la cui potenza crebbe gradualmente dagli iniziali 9 cv per 375
cc di cubatura ai 28,5 cv per 602 cc della versione del 1970 (alle soglie degli
anni ‘80, s’aggiungerà un mezzo cavallo, ma sarà davvero l’ultimo incremento).
Fino all’Estate del 1990, cioè fino all’ultimo degli esemplari prodotti in
uno stabilimento portoghese della Citroen, di “Dodoche”, tra sue varie visioni migliorate (come le ultime “Special” o
“Charleston”), varianti (“Sahara”), infine, volendo comprendere nel suo
concetto anche filiazioni dello stesso progetto originario (“Mehari”, “Dyane” o
“Ami”), erano state prodotte all’incirca dieci milioni di unità.
L’enorme successo della 2CV, particolarmente tra le fasce giovanili, fu
innescata dalla felice combinazione d’un prezzo decisamente popolare con costi
di manutenzione bassi e, soprattutto, con linee che sapevano di una singolare
freschezza stilistica, come anche d’una originalità capace di imporsi ai gusti
e al tempo.
La simpatia naturalmente sprizzante da quelle vistose evoluzioni della
carrozzeria, come tutte quelle curve che s’alternavano secondo la trama d’una
commedia di Moliere, pareva quasi il corollario pienamente riuscito d’un
progetto che era nato speciale perché per un fine speciale, anzi, uno
addirittura moralmente nobile, visto che l’obiettivo di fondo era di sovvenire
alle esigenze dei ceti meno abbienti della società francese.
Quella sagoma che, soprattutto nell’ultimo ventennio di produzione, faceva
tanto vintage e da stimolo affettivo, sarebbe divenuta un mito certificato
nella storia dell’automobile solo dopo aver fatto solido e definitivo ingresso
nel cuore della gente comune. Un destino singolare, toccato solo a rare altre
vetture, quasi nessuna, comunque, così longeva da durare mezzo secolo senza mai
perdere il ritmo e il respiro del successo (l’esempio più significativo, quello
per cui è possibile instaurare una reale analogia, anche per l’aspetto delle
ragioni morali alla base della sua concezione, sarà offerto dalla Wolkswagen
Typ 1, maggiormente nota al mondo come Maggiolino).
Naturale, così, che le stesse tentazioni di viverla oltre l’ambito
ordinario, prendessero facilmente corpo anche in altre direzioni. Come quella
sportiva, espressa da campionati monomarca organizzati non solo in Francia, ma
pure da partecipazioni a gare di lunga durata, ovviamente per la categoria
corrispondente. O come quella della cinematografia, emergente in diverse
pellicole per il grande schermo, tra cui “Solo per i tuoi occhi”, dove appare,
nella versione “6 Club” e tinta d’uno sgargiante giallo, immersa in spericolare
peripezie ed inseguimenti mozzafiato tra alcune strade spagnole, guidata
dall’attore britannico Roger Moore nei panni di James Bond.
Al giorno d’oggi, a distanza di oltre trent’anni dalla dismissione della
sua produzione, di questo storico modello
rimangono una solida memoria ed un entusiasmo ancora in stato d’assoluta
integrità, soprattutto tra le generazioni che gli sono state contemporanee,
mentre, per quelle che appartengono al nuovo millennio, è sempre una piacevole
sorpresa scoprire la 2CV anche solo casualmente, magari scorgendola passare con
il volante tenuto ben stretto tra le mani di qualche appassionato, il quale non
rinunzierà mai al piacere di possedere una leggenda che, malgrado la leggerezza
del corpo vettura, ha lasciato un solco assai profondo tra le pagine della grande storia dell’automobile.