sabato 10 agosto 2024

206 WRC. Una scommessa vinta dalla Casa del Leone


di Roberto Berloco.
Tra i marchi europei che hanno fornito vetture per il circus del rally fin dalla seconda metà del secolo scorso, c’è stata la Peugeot, universalmente nota anche come Casa del Leone. E l’effigie di un Leone, alla maniera di un nobile blasone sopra uno scudo medievale da battaglia, teneva impresso al centro della calandra la 206 WRC, uno dei suoi modelli più amati dal grande pubblico, la cui eredità è oggi degnamente raccolta dalla 208.

Come per molte altre automobili che si sono fatte amare e ammirare tra i polverosi sterrati del rally mondiale, anche la sua è una storia che costituisce un capitolo a sé dentro il libro iridato del motorsport. Mancava appena un anno allo scoccare del terzo millennio, quando nasceva al rally questa speciale elaborazione di una Peugeot 206. E proprio questa, tra i vari modelli a listino che commercializzava Peugeot, sostanzialmente per una maggiore, naturale sua propensione a prestarsi, in termini di dimensioni e di agilità, alle asperità, alle insidie e ai ritmi dei tracciati. Anche se, va precisato, quelle sue misure di base, poco sotto i quattro metri, vale a dire il parametro imposto come lunghezza minima dalla FIA alle soglie del terzo millennio, finirono per essere “allungate” attraverso l’artificio di paraurti maggiorati ed altre escogitazioni estetiche pensate per lo scopo di stare alla norma.

D’altra parte, guardando indietro, accadde così pure con la 205 Turbo 16, scelta per le sue caratteristiche dimensionalmente contenute e lanciata negli anni ’80 per la partecipazione al Gruppo “B”, dove ebbe modo di dimostrare ampiamente gli intendimenti dell’azienda produttrice. E, invero, non solo gli intenti di partenza, che erano quelli di dare prova degli alti livelli di tecnologia raggiunti per l’epoca, ma pure gli obiettivi più propriamente tattici, quelli delle vittorie sul campo, come i vari titoli Costruttori e Piloti conseguiti tra il 1984 e il 1986.

Nella 206 WRC non era però travasato solo quell’orgoglio tipico Peugeot, che, per i princìpi del fondatore e per filosofia aziendale, vuole i propri modelli sempre a determinate grandezze di affidabilità, di robustezza e di qualità costruttiva.

In quelle linee, che alternavano così originalmente e armoniosamente tensione a morbidezza, aggressività a ricerca di equilibrio e stabilità delle masse, era concentrata anche tutta quella fierezza nazionale, che, pure nel campo del rally, esigeva la conquista della massima gloria sportiva.

Ricordarlo oggi è cosa facile, viene da sé senza timore di trascurare manco un particolare, se non altro per l’alto valore di fascino di quelle pellicole che si dispiegavano al suo passaggio. Il leoncino francese sfilava, sfrecciava, sfuggiva tra gli sguardi imbambolati degli spettatori assiepati lungo le coste dei tracciati, sotto lo sguardo di giornalisti che facevano il loro dovere di cronaca dietro i microfoni, non di rado esterrefatti dalle prestazioni eccezionali di quell’indiavolato scatolino su quattro ruote.

Sviluppava un piacere singolare per gli occhi la vista di quel siluro a trazione integrale, che tanto sapeva imporre di sé al suo passaggio. C’era un sapore tutto particolare per il palato della mente nel ruggito esasperato di quel suo motore, un 2 litri turbo con 4 cilindri in linea, coppia da 635 Nm a 4.000 giri al minuto, impostato dalla scalata di cinque marce non sincronizzate per il cambio Peugeot/X-Trac, sequenziale longitudinale, differenziali gestiti elettronicamente, sospensioni McPherson sia all’anteriore che al posteriore.

Un suono, un rombo, quello che veniva a sprigionarsi dalle viscere della sua monoscocca in acciaio, semplicemente inconfondibile. Un principio di tuono che precedeva il lampo della sua corsa, spandendo generoso nell’aria, rimanendo impresso nella memoria di chi guardava alla maniera di un dipinto di Raffaello, di un’architettura del Palladio o di una melodia di Chopin.

Certo, forse potevano sembrare anche troppi quei trecento cavalli di razza asserragliati, strepitanti nel cofano motore della piccola Peugeot. Come sproporzionato poteva forse apparire il 2.000 cc che liberava quei trecento destrieri lungo i vari itinerari del Campionato del Mondo di Rally. Ma si trattava di una pura impressione, destinata a svanire non appena la chiave dell’accensione fosse stata girata, perché, da quel momento, tutto diventava una naturale, spontanea, trascinante certezza.

Dopo aver scaricato a terra la prima nota della sua potenza, quella della partenza, il piccolo felino d’Oltralpe si dileguava verso una fuga forsennata e inarrestabile, disegnando una scia impastata di polvere di gloria, qualcosa di simile al passaggio di una cometa che si faccia largo tra meteoriti e grigi frammenti di universo.

Cinque le edizioni di Campionato del Mondo (dal 1999 al 2003) al quale la 206 WRC partecipò. Cinque stagioni che testimoniarono la validità del progetto e delle scelte tecniche della Peugeot. Cinque anni di vittorie - sia pure con la maggior parte di esse concentrate in quelli di mezzo - che, nel loro insieme, rappresentarono una scommessa vinta dalla Casa del Leone e inorgoglirono il popolo francese, da Rennes a Tolone, da Lille a Bordeaux, da Tours a Lione. Ma, per qualche misterioso meccanismo, seppero piacere pure agli Italiani, ai quali quella sagoma di automobile era naturalmente familiare per via del modello di serie che riscuoteva successo anche nel mercato del Bel Paese.

Ne parlavano con il dovuto entusiasmo o solo in bene i media specializzati italici, e lo facevano anche quelli dedicati alla cronaca ordinaria, se contenevano pagine dedicate ai motori. Era inevitabile, forse anche perché, dopo l’uscita di scena della Lancia dall’agone rallistico, quella vicina di casa, così rombante, attraente e vincente, pareva quasi fare da consolazione alle afflizioni dell’assenza di un’alternativa italiana.

Ovviamente, a giocare un ruolo fondamentale nel successo della francesina furono i piloti - e i rispettivi navigatori - ai quali la Casa di Sochaux affidò il proprio gioiello. Gilles Panizzi e Francois Delecour, questi quelli dei passi proprio iniziali del Tour de Corse del 1999, a dirla tutta non così fortunati, considerando che furono ambedue costretti al ritiro.

Sorte non diversa da un nome destinato a brillare sopra gli altri, quello finlandese di Marcus Gronholm. Una stella, la sua, che si accenderà fin dalla ricorrenza dell’Acropoli del 1999, dove anch’egli viene costretto a doversi fermare, ma, dalla quale, e sia pure dopo qualche altro passo zoppicante - le occasioni poco entusiasmanti di Australia e Gran Bretagna, sempre nel 1999 - inizierà una scalata inesorabile di trionfi che faranno di quel modello di segmento “B” il protagonista assoluto del WRC per un arco di annualità breve, ma intenso e galvanizzante.

E’, infatti, il 2000 l’anno che apre la diga dell’emozione delle vittorie. Sulla SS2 Rammen 1, in territorio svedese, al volante di una 206 WRC particolarmente in vena, Gronholm batte Makinen e McRae. E lo scandinavo si ripete negli appuntamenti estivi di Finlandia e Australia.

Nelle tappe di Corsica e Sanremo, saranno invece Panizzi e Delecour a farla da padroni, anche per via dell’asfalto nel quale eccellevano e anche se sarà sempre Gronholm infine a primeggiare, conquistando il Titolo mondiale e conquistandolo di nuovo nel 2002. La parentesi del 2001 vedrà la Peugeot doversi invece “accontentare” soltanto del Titolo Costruttori, a causa di difficoltà tecniche incontrate nella prima fase del Campionato, per quanto controbilanciate da quelle fronteggiate da marchi concorrenti, come Mitsubishi, che dovrà pagare in termini di punteggio la scommessa della sua EVO 7.

Il 2003 è solo la coda di quella luminosa cometa destinata ad essere interpretata alla maniera di un chiaro segno nel cielo del destino del rally internazionale. Nella Scuderia Peugeot sono concentrati sulla 307, la succeditrice della 206, che, durante quest’ultima stagione, sembra non solo aver perso il gusto di vincere, ma pure volersi addossare il fardello della triste notizia di un tumore al cervello per uno dei suoi altri piloti, il giovane Richard Burns, al quale, comunque, quella vettura non era mai andata a genio. “Mi sento di essere seduto sull’auto, ma non al suo interno” - svelò un giorno con amarezza. Perché anche un cavallo vincente può non piacere a tutti.

Per avere un’idea di quanto ancor oggi la 206 WRC - particolarmente quella pilotata dal campione che più ha saputo trarre il meglio da essa, il finnico Gronholm - sia tenuta in degno ricordo, bisogna accedere a quello che è il suo attuale prezzo sul mercato: mediamente intorno ai 300.000,00 euro. Una somma a primo impatto forse notevole, ma che, a guardar bene, appare quasi un regalo, se si considera l’enorme valore affettivo e simbolico legato al significato di questa vettura nel panorama del rally di livello mondiale.

E già, perché ancora oggi il suo ricordo batte integro in chiunque ami il rally per quello che è realmente, vale a dire una disciplina sportiva automobilistica nella quale il coraggio e le abilità del pilota debbono disporre di un mezzo sempre all’altezza. E la 206 WRC l’altezza l’aveva tutta, al punto da rappresentare un’altezza a sua volta, quel che succede di regola alle solite eccezioni alla regola.

Copyright - Tutti i diritti riservati

0 commenti:

Posta un commento