di Roberto Berloco. E’ regola della storia. C’è un momento in cui tutto ha inizio. Anche la gloria d’un nome che ha solcato profondamente l’epopea dell’automobile, infuocando la magìa d’una leggenda che si tramanda, ancor ora, dalle parti di Coventry, popolosa cittadina britannica un tempo nella contea del Warwickshire e, oggi, nella giurisdizione delle West Midlands.
Parliamo naturalmente di Jaguar, marchio iconico che, fin dal secolo scorso, ha teso ad identificare una sintesi bilanciata di eleganza, sportività, potenza e regalità. Un’armonia racchiusa in superbi corpi di lamiera scolpita dall’ambizione a primeggiare, dove si vuole che scorra puro sangue inglese.
L’azienda che, oggi, il mondo intero conosce come Jaguar, nacque nel 1922 per volere di William Lyons e di William Walmsley, ingegnere il primo e pilota di motociclette il secondo, con la denominazione SS Car Ltd (Swallow Sidecar Company).
Il nome del felino andrà a prendere il posto di quello d’origine della Casa produttrice, solo poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, per via del successo riscosso, in anni precedenti, da modelli come la 100 e altri, alle cui sigle era stato semplicemente affiancato.
La 100, in particolare, era non solo il primo modello con una chiara vocazione sportiva prodotto dall’industria fondata da Lyons e Walmsley, ma pure il primo ad aver ricevuto battesimo con quella sorta di soprannome tanto intrigante.
La XK 120 fa ingresso sul mercato nel 1948, raccogliendo il testimone proprio della 100. Rispetto alla sua predecessora, che richiamava approssimativamente nella linea, la XK sviluppava molta più potenza. Il numero 120, d’altra parte, allude proprio alle 120 miglia orarie - l’equivalente di circa 195 km/h - che la macchina era in grado di raggiungere, in grazia d’un propulsore a benzina da 3.4 litri, sei cilindri in linea ed oltre 160 cavalli scalpitanti sotto il cofano anteriore. Per l’epoca, un traguardo enorme in tema di velocità, anzi un vero e proprio record nell’ambito delle produzioni di serie.
In momenti successivi saranno realizzate varianti ancora più performanti, di cui una, considerando esperienze di pista cui era stata già sottoposta, destinata specificatamente alle competizioni, contrassegnata come XK 120 3.4 SE Tipo C.
Tra i dati che, ad oggi, potrebbero far sorridere non poco, c’è che, per le prime quasi 250 unità, prodotte sino al 1950, tutte in versione roadster, la carrozzeria fosse interamente in alluminio, il telaio addirittura in frassino, mentre l’intero assemblaggio avvenisse in modo del tutto artigianale. Nessuna catena di montaggio, nessun automatismo, ma solo tanta, paziente opera di mani d’operai animate dalla stessa passione che aveva motivato i due comproprietari nel giorno della fondazione.
Un’altra curiosità che, poi, potrebbe destare sorpresa, è offerta dal particolare delle maniglie d’apertura di questi originari esemplari, non a vista e sporgenti sulla superficie delle portiere laterali, come di tradizione nelle autovetture del passato e del presente, ma, una volta armata la cappotta, integrate ai finestrini sotto forma d’una sottile impugnatura. Un meccanismo che ricorda talune soluzioni adottate nelle Alfa Romeo di tempi recenti.
Negli anni successivi al lancio, allietati da un entusiastico gradimento nella vendita, l’iniziale roadster fu affiancata dalla declinazione cabriolet, con una copertura in robusta tela e, ancora, da una versione coupè.
Oltre che per la linea elegante ed originale, la XK 120 risaltava anche perché poteva, a buon diritto, posizionarsi tra le vetture tecnologicamente più avanzate del secondo Dopoguerra. Risultato in gran parte dovuto al motore che, oltre ad una cubatura poderosa, capace di sprigionare prestazioni oltre la media delle concorrenti, presentava soluzioni talmente raffinate da finire per sopravvivere di quasi trent’anni, nell’aspetto della meccanica, alla vita stessa del modello.
La figliolanza erede della XK 120 riscuoterà eguale successo, con i modelli a seguire XK 140 e XK 150, fino all’entrata in scena della E Type nel 1961. Con quest’ultima e per quanto attiene a tale particolare nicchia di mercato, la Casa di Coventry svolterà verso una visione decisamente distinta da quella classicheggiante preferita sino a quel momento, più proiettata, cioè, verso peculiarità estetiche di avanguardia, nel contempo continuando a valorizzare quei connotati tecnici, la cui pregevolezza aveva stupito e conquistato sin dai suoi primi battiti di vita.
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